«To
be, or not to be: that is the question;
Whether 'tis nobler in
the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous
fortune,
Or to take arms against a sea of troubles,
And by
opposing end them?»
(IT)
«Essere
o non essere: ecco la questione;
se sia più nobile nella mente
soffrire
i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa
fortuna,
o prendere le armi contro un mare di affanni,
e
contrastandoli porre fine ad essi.»
(Amleto,
atto III, scena I)
Era
il 1602 quando il genio di Shakespeare concepì una delle sue più
famose e dibattute tragedie nella storia della letteratura: Amleto.
L’opera, infatti, si è prestata a diverse interpretazioni,
divenendo uno dei drammi più rappresentati sui palcoscenici di
tutto il mondo.
Amleto
è un personaggio poliedrico, ricco di sfumature e caratterizzato per
la sua indecisione che lo porta a contemplare persino la morte, come
cessazione delle pene terrene.
Da
molti è stato visto anche come un personaggio filosofico che in
alcune punti chiave dell’opera si interroga sul significato e senso
dell’esistenza.
Nel
pensiero di Amleto sembrano confluire tre correnti filosofiche
differenti: il relativismo, l’esistenzialismo e lo scetticismo.
Il
relativismo gli suggerisce l’idea che il Bene e il Male, intesi
come principi imperanti nelle vicende terrene, non esistano, ma siano
il frutto di un processo mentale, di conseguenza è l’uomo che li
crea nella sua visione della vita.
Il
concetto per cui non vi è nulla di reale a parte l’intelletto ci
riconduce ai Sofisti greci, che sostenevano la realtà percepibile
solo attraverso i sensi, onde per cui non esistono verità assolute,
ma solo verità relative.
L’esistenzialismo
amletico si ricollega al famoso monologo “essere o non essere”
ove “l’essere” è inteso come la vita e l’azione, invece, il
“non essere” come la morte e la mancanza di azione.
La
contemplazione della morte è legato al pensiero religioso della
continuità della vita dopo la morte, attraverso il percorso
dell’anima imperitura.
Letteratura
ed arte si fondono, con profonda armonia nelle scene del quotidiano.
Da sempre i grandi maestri dell’arte hanno miscelato il loro
pensiero alle correnti filosofiche e i loro soggetti, come in una
tragedia .letteraria, hanno rappresentato le fasi storiche e sociali
del loro tempo.
Ho
voluto fare questa premessa per allacciarmi ad un piccolo gioiello
dell’arte del XVII sec: Georges
de La Tour e la sua Maddalena penitente.
Nel teschio illuminato da una fioca candela percepisco la visione
relativista amletica: il bene e il male sono il frutto della mente
umana. La morte è una condizione inesplorata, misteriosa e
inaccessibile se non attraverso la diretta sperimentazione senza
ritorno.
Possiamo
considerarla come la cessazione della vita, quindi la grande nemica
della continuità esistenziale, oppure possiamo guardare verso di
essa senza ansia o paura, trovare nell’idea che sia la pace dalle
pene, dalle insicurezze e indecisioni terrene, la nostra più
semplice e naturale consolazione. Pertanto percepiamo la vita in modo
autonomo, attraverso i sensi che acuiscono le emozioni e anche i
timori.
La
morte “la non azione” è rappresentata con forza mistica
dall’azione del dipingere “ la vita”.
Inscenare
in pittura un grande dramma collettivo non è mai cosa semplice e
trovare la giusta formula per offrire una sana contemplazione del non
“ Visibile” è una rara manifestazione di maturità interiore,
oltre che artistica.
Poco
sappiamo della vita del pittore e di come concepì l’eredità
caravaggesca: forse soggiornò in Italia, dopo ebbe modo di conoscere
le opere del caposcuola italiano durante un viaggio a Roma o, forse,
fu influenzato dagli artisti olandesi, loro stessi seguaci del
Merisi. Le ipotesi restano aperte. In ogni modo, La Tour testimonia
l’enorme influenza che il pittore italiano esercitò in tutta
Europa, a partire dal primo decennio del Seicento.
Chiara
Taormina